«La disabilità nella società di oggi non è vista come un valore in cui potersi riconoscere, ma come un difetto da mascherare, da capire, da accettare, da accogliere, ma che sempre difetto resta. Dobbiamo proporre dei modelli credibili di vita.»
La disabilità è stata finora vissuta – dagli abili, ma anche e soprattutto dai disabili – come un deficit costitutivo rispetto al naturale essere nel mondo del soggetto, un ostacolo da aggirare, da abbellire, da ignorare, ma comunque sempre il punto focale attorno al quale ruota tutto il resto, dai modelli proposti, ai progetti di aiuto, alle offerte di inserimento.
La stessa idea di divers-abile - per quanto in voga in questo periodo – sembra proprio andare in questa direzione, nel tentativo di aggirare un ostacolo che comunque rimane a fondamento dell’approccio alla realtà. Perciò, quando mi pongo rispetto al mondo come “non abile”, o anche quando penso di dover faticosamente industriarmi ad essere abile in altra maniera, non sposto per nulla il problema e sono comunque costretto a definirmi rispetto al concetto di un’abilità che mi è in se stessa inaccessibile.
La riflessione filosofica su questo punto potrebbe proporre la considerazione della nostra condizione come un elemento costitutivo del nostro approccio alla realtà, un guardare tra gli ostacoli che – nel momento stesso in cui cessano di essere considerati in quanto ostacoli – divengono semplici elementi imprescindibili del nostro modo di vedere il mondo.
Questa prospettiva, tuttavia, si scontra con delle difficoltà oggettive nel mondo in cui viviamo, primo fra tutti un problema terminologico molto indicativo del problema che propongo, ossia l’impossibilità di definirci per ciò che siamo, ma di dover partire da ciò che non possiamo essere: disabili, diversabili, invalidi, handicappati sono tutte definizioni che ci considerano “rispetto a ciò che non siamo”. La filosofia della disabilità vorrei dunque che fosse il tentativo di ragionare sulla nostra condizione in termini positivi che passassero anche da proposte terminologiche più adeguate.
Purtroppo, però, il primo ostacolo a questo cambio di prospettiva sono i disabili stessi che, cresciuti in un contesto che li pone ai margini con tante belle parole, sognano improbabili rivalse che non potranno avere.
Se i primi a considerarci disabili siamo noi stessi, se sogniamo di correre i 100 metri con gli abili nonostante le nostre disabilità, rimarremo sempre vittime di un modello che costitutivamente ci è precluso.
Il nostro compito non è quello di mostrare di essere bravi quanto gli abili, in una ridicola gara che ci vedrebbe sempre a rincorrere, ma semplicemente di essere noi stessi, offrendo noi stessi come modello di vita.
«La nostra vita da disabili invisibili»
Un europeo su quattro ha un familiare disabile. Basta questo per capire come l’handicap faccia parte della vita di moltissimi di noi. Lo dicono i messaggi al blog del Corriere della Sera e le lettere che arrivano al giornale. «Uscire» allo scoperto è essenziale per rompere con una cultura che per secoli ha nascosto i disabili. Per questo abbiamo deciso di pubblicare alcune di queste lettere. «Circa 80 milioni di cittadini europei sono affetti da una qualche forma di disabilità. Tale cifra, tradotta in termini percentuali, è pari al 16% della popolazione europea. In altri termini, almeno un europeo su 4 ha un familiare disabile». Bastano questi numeri, dati l’altro giorno dal commissario Antonio Tajani in una audizione al gruppo Ppe dell’europarlamento, a capire come l’handicap faccia parte quotidianamente della vita di moltissimi di noi.
Lo dicono i numeri, lo dicono i messaggi di cui traboccano i blog dedicati a questi temi come quello del Corriere della Sera, lo dicono le lettere che arrivano al giornale ogni volta che, forse senza la continuità invocata, ci occupiamo di alcuni dei tanti problemi della disabilità.
«Uscire» allo scoperto, raccontare la propria storia, rivelare la propria sofferenza, è essenziale per rompere con una cultura che per secoli ha «nascosto» il disabile in casa, dentro la famiglia, nel chiuso degli affetti dei genitori e dei fratelli, come fosse frutto di una colpa. Così come pensava San Gregorio Magno teorizzando che «un’anima sana non albergherà mai in una dimora malata» o il quarto Concilio Lateranense deliberando che «l’infermità del corpo a volte proviene dal peccato».
Per questo, oggi, sommersi da messaggi di consenso e di dolore dopo avere messo a fuoco l’altro giorno il tema del disinteresse dello Stato nei confronti delle famiglie, così come sottolineato dal rapporto del Censis, abbiamo deciso di pubblicare alcune di queste lettere. Lettere di italiani che non chiedono l’elemosina. Ma si raccontano, si sfogano, denunciano. Nella speranza che aiutino chi sta «lassù» (non il buon Dio, si capisce: lui lo sa già) a capire come un paese serio, anche in un momento di difficoltà come quello che stiamo vivendo, non è legittimato a dimenticarsi delle fasce più deboli della popolazione. E tanto meno scaricare il problema sulle famiglie.